Denis de Rougemont:
"Tutto ciò mi ricorda la frase di Vernet a proposito d’un quadro
che vendeva molto caro: «Mi ha richiesto un’ora di lavoro, e tutta la vita »
"Tutto ciò mi ricorda la frase di Vernet a proposito d’un quadro
che vendeva molto caro: «Mi ha richiesto un’ora di lavoro, e tutta la vita »
"L’estate
del ‘38 fu una ben tragica estate: e, in quella estate, Denis de
Rougemont, scrisse, dalla Francia, la parola e fine » al suo «L’Amore e
l’Occidente ». Era un intellettuale giovane, aveva trentadue anni..[Armanda Guiducci]

[leitmotiv o keywords, Fenoglio, Santucci]
Ci avverte Denis de Rougemont: Ho chiamato « libri » le diverse parti di quest’opera, perché ognuna abbozza il contenuto d’un volume di dimensioni ordinarie. La gran quantità dei fatti e dei testi citati, il continuo intrecciarsi dei leitmotiv, rischierebbero di sviare qualche lettore se non dessi qui la chiave della sua composizione. .In sostanza, io dico, è un continuo parlar d'altro, cioè rivendicare esplicitamente l'andar pe' li rami, tralignare, spiazzare,scartar di lato improvvisi. Dato che, lo sappiamo bene, non ha senso puntare diritti allo scopo che ci fugge avanti, per cui è sempre preferibile menare il campo pe' l'aia, lasciare andare il discorso che ci sfugge dalle mani quando tentiamo di afferrarlo.
Cioè un ipertesto di fatto che si assume come tale a leitmotiv strutturale, in quanto fa riferimento agli oggetti-libro di L' amore e l'Occidente | Autore Rougemont Denis de | Traduttore Santucci L. | BUR Biblioteca Univ. Rizzoli (collana La Scala. Saggi)
- Prediamo dalla Guiducci la descrizione della durezza della condizione femminile quando entra in scena paradossale l'amore cortese.
- Dunque, successivamente, ecco le contraddizioni dell'amor cortese, almeno in apparenza, nel corpo a corpo nella guerra in cui ancora si può vedere in faccia il nemico.
- Seguiamo con l'emancipazione della donna come sopravvive la contraddizione originaria.
note. Luigi Santucci nel 1944: una necessaria positiva alienazione

Questo libro finii dunque di leggerlo nei bivacchi di quella che la storia chiamò poi, con termine diventato pomposo e manualistico, « la Resistenza». Mi accompagnò nel mio fagotto come un breviario. Lo lessi e lo annotai al lume di torce elettriche o candele, nelle stamberghe e nei fantomatici domicili dove, per far perdere le nostre tracce, si dormiva una sola, notte bisbigliando una parola d’ordine. E fu quel blocco di carta stampata (ma al di qua delle fascinanti tesi storiche e filosofiche, della serratissima dialettica culturale dipanata da Rougemont: tutto ciò lo decifrai compiutamente più tardi, a freddo) la nourriture e insieme l’« altra dimensione» di quell’avventura senz’armi che fu la mia. C’era, in quell’oggetto che si andava ogni giorno sgualcendo e deteriorando, il noùmeno, il prezioso miele di cui avevamo perduto il sapore: la cultura, il libero e inebriante esercizio del talento, l’Europa e l’Occidente appunto, per cui ci si batteva e si ramingava di forra in forra, di nascondiglio in nascondiglio. Il saggio di Rougemont mi divenne dunque l’immagine d’una città alta di pensiero, con le sue cuspidi e cattedrali, che sconfiggeva l’orizzonte corrusco e fangoso della guerra: una Terra promessa, un coraggio. Così io leggevo e fuggivo, leggevo e andavo ad appuntamenti in cantine di cospiratori, in tipografie suburbane di stampa clandestina. E nei momenti di panico e resa interiore (che per me pavido iutellettuale furono tanti e troppi) la forza olimpica e insieme provocante, colloquiale ed estrosa di Rougemont, fu per me durante quei mesi non so quale malleveria dello spirito sulla violenza, un non praevalebunt, una segreta mano sulla spalla che — senza che il libro c’entrasse per nulla con quanto andavo vivendo — mi fornivano la più necessaria, positiva « alienazione».
Fu pertanto una specie di voto il mio impegno che, se fossi uscito vivo, avrei tradotto quel libro, gli avrei trovato un editore in Italia; e sarei poi andato sulle tracce del prestigioso maestro (che faccia, che voce poteva avere?...) per annunciargli quale impensabile sorte avesse avuto la sua fatica, ben oltre il messaggio culturale, nella bisaccia di un ignoto giovanotto del maquis italiano.
Tutte cose che ho fatto, con premiante letizia. E altresì quella di partecipare a Denis (il quale mi si rivelò persona di affabilissimo fascino, ben all’altezza della sua genialità di scrittore) che il suo libro mi aveva insegnato più di tutti i corsi universitari, aveva sgranchito a dimensioni europee la mia accademica saputaggine di laureatino.
http://omennomen.it/node/397