Nel primo intervento, trascrizione di una conferenza tenuta un paio di mesi prima nel Senato dell’Università di Cambridge, l’analisi di Snow è semplice e tagliente, non lascia scampo: “Molte volte dopo la giornata lavorativa trascorsa tra gli scienziati, la sera "evadevo" , per così dire, con qualche collega letterato. Ho avuto naturalmente, amici intimi tra gli scienziati come tra gli scrittori. Vivendo tra questi gruppi, e ancor più, penso, spostandomi regolarmente dall'uno all’altro e viceversa, mi trovai nella condizione di dovermi occupar del problema di quelle che, ancor molto prima di scriverne, battezzai fra me "due culture". Avevo infatti la costante sensazione di muovermi tra due gruppi - di pari intelligenza, di identica razza, di estrazione sociale non molto differente, di reddito pressoché uguale - che ormai non comunicano quasi più tra loro e che, quanto ad atmosfera intellettuale, morale e psicologica, avevano così poco in comune che si sarebbe creduto non di essere andati da Burlington Houise o South Kensigton a Chelsea ma di avere attraversato un oceano.”
Umanisti e scienziati vivono dunque in mondi separati, disconoscendosi e disprezzandosi gli uni con gli altri. Ma con questo atteggiamento, che si forma in pieno romanticismo e che viene mantenuto anche nel cuore del ‘900, non fanno che denunciare la propria ignoranza. E anche la propria irresponsabilità perché, secondo Snow, è proprio a causa di questo spirito di separazione che il fossato di separazione tra nord e sud del mondo, tra ricchi e poveri, si va progressivamente allargando.
Gli umanisti, secondo Snow, non hanno compreso l’enorme portata culturale e pratica della Rivoluzione Industriale. Come specifica meglio nel secondo intervento “la rivoluzione scientifica è il solo metodo in virtù del quale la maggior parte degli uomini può raggiungere cose di primaria importanza (anni di vita, libertà dalla fame, sopravvivenza dei fanciulli), quelle cose di primaria importanza che noi consideriamo ovvie e naturali, ma che in realtà abbiamo conquistato attraverso la nostra rivoluzione scientifica da tempo non poi così immemorabile”. Questo comporta, prosegue Snow, che i politici non riescono a valutare in modo corretto l’immensità del progresso che i paesi ricchi potrebbero, con il loro impegno, portare in aiuto dei paesi più poveri.
Ma Snow non divide gli umanisti-cattivi dagli scienziati-buoni. La tesi principale è che sia “pericoloso avere due culture che non possono o non sanno comunicare. In un tempo in cui la scienza determina gran parte del nostro destino, cioè se dobbiamo vivere o morire, è pericoloso nel senso più pratico. Gli scienziati possono dare cattivi consigli, e coloro cui spetta prendere decisioni non possono sapere se sono buoni o cattivi.”
Ciò che colpisce degli interventi è soprattutto l’estrema lucidità con cui l’autore mette in relazione l’assenza di dialogo tra le due culture e il disagio sociale diffuso nel mondo. Disagio pratico e tangibile, misurabile in morti per fame e miseria. Dolore reale, dunque, che può essere combattuto solo attraverso la realizzazione di una vera e propria catena umana, che sappia fondere l’intervento tecnologico con la saggezza politica.
Leggendo le brevi, limpide pagine di Snow, sembra evidente che in 50 anni non siamo stati in grado di fare un solo passo in avanti.
LA SCOPERTA di un gruppo di neuroni premotori nel cervello dei macachi può avere ripercussioni sulla comprensione dell’altruismo? Secondo John Brockman, che lanciava più di quindici anni fa il sito EDGE ( www.edge.org ) in nome della Terza Cultura, sì. Dice Brockman: «Per terza cultura intendo l’attività di quegli scienziati che sanno dire cose nuove e interessanti sul mondo e su noi stessi». Ossia quegli scienziati che non vedono un divario netto tra fatti (dominio della scienza) e interpretazioni (dominio delle humanities), ma che assemblano il sapere in modo nuovo, evitando le tentazioni riduzioniste. Da anni Brockman produce libri scritti da scienziati, artisti e filosofi che cercano di fare proprio così: dire cose nuove e interessanti, senza troppi pregiudizi, sul mondo e su noi stessi. Ci prova l’editore Il Saggiatore a lanciare il dibattito in Italia con un volume collettivo, Terza cultura: idee per un futuro sostenibile, curato da Vittorio Lingiardi e Nicla Vassallo. Antropologi, linguisti, filosofi, giornalisti, tutti rigorosamente italiani, si cimentano con la questione. In qualche parola chiave: la terza cultura in Italia si imporrà grazie a internet, un minore analfabetismo scientifico e una più grande apertura interdisciplinare e internazionale. Ma il lettore, quando a pagina 150 ha visto ricorrere il nome di J.P. Snow un centinaio di volte, insieme a quello di Calvino e di Croce (maledetto!), comincia a provare una certa stanchezza… Dove sono le idee per un futuro sostenibile in questo elenco di lamentele sui mali italici? Qualche intervento si distingue per pragmatico ottimismo e suggerisce sul serio programmi di ricerca nuovi: per esempio, Cristina Bicchieri ci spiega come le norme sociali, tormentone di sociologi e filosofi morali, possano essere indagate empiricamente. Claudia Caffi ci accompagna in una passeggiata, dove retorica antica e linguistica contemporanea convivono felici e produttive. Don Virginio Colmegna, in un bellissimo intervento, fa proposte concrete su come aumentare l’empatia nelle città e diminuire la percezione delle differenze e imparare a fidarsi degli altri. A dir la verità, Brockman non aveva l’ambizione di discutere l’idea di J.P. Snow sulle due culture. Il divario che la Terza Cultura doveva coprire era quello tra una cultura scientifica sempre più specialistica e una deriva nelle humanitiesamericane che va sotto il nome di cultural studies. E umanisti e scienziati seri si ritrovano da sempre alleati contro quei pastiches da parolai che hanno ammutolito la cultura umanistica e fatto affondare i dipartimenti di Humanities americani.
di Gloria Origgi, Saturno
Vittorio Lingiardi e Nicla Vassallo (a cura di), Terza Cultura, Il Saggiatore, pagg. 237, •18,00;